Teatro Sala Umberto
Il teatro sala Umberto è progettato dall'Arch. Andrea Busiri Vici con decorazioni del rinomato scenografo Alessandro Bazzani, inaugura nel 1882 come sala concerto con il nome di Teatro della Piccola Borsa.
Nel 1890 l'intervento dell'Arch. Giulio Podesti amplia la capienza della sala a 450 posti e intorno al 1900 è ridenominata con il nome attuale. Nel 1906 viene anche adibita a Cinemofono. Dopo il debutto di Petrolini il 25 maggio 1911, furono eseguite una serie di sistemazioni della sala in occasione dell'Esposizione Universale per i 50 anni dall'Unità d'Italia, ad opera di Attilio Spaccarelli e Arnaldo Foschini, che terminarono nel 1913. Nel 1928 fu ulteriormente ristrutturato, dotato di un ampio palcoscenico con boccascena di 12 metri e di moderne attrezzature per la proiezione di film.
Nella sua storia artistica si distingue tra gli anni Dieci e Quaranta come Tempio del Varietà e della Rivista italiana. Calcano il suo palcoscenico Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, Nicola Maldacea, Totò, Aldo Fabrizi, i fratelli De Filippo, Anna Fougez, Odoardo Spadaro, i fratelli De Rege, Lydia Johnson, Riviera Five, Renato Rascel, Rossano Brazzi, i tre fratelli Bonos, Cuttica, Alfredo Bambi, i fratelli De Vico, Michele Galdieri, la compagnia Isa Lysette, Libero Bovio, Anna Magnani e Walter Chiari. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, la Sala Umberto viene destinata ad attività cinematografica. Nel 1980 viene completamente ristrutturata e nel 1981 torna a essere un teatro a tutti gli effetti. La prima stagione diretta da Luigi Longobardi viene inaugurata dal grande Domenico Modugno in L'uomo che incontrò se stesso di Luigi Antonelli, con la regia di Edmo Fenoglio. Dal 1983 al 1991 la programmazione artistica viene assunta dall'ETI (Ente Teatrale Italiano) guidato dallo stimato Bruno D'Alessandro. Dal 1991 al 2001 la struttura torna a essere un cinema d'essai programmato dall'Istituto Luce, e in seguito da Medusa.
Nel settembre 2002, dopo un’ulteriore ristrutturazione, riprende la sua attività teatrale sotto la direzione artistica di Alessandro Longobardi che inaugura la stagione con lo spettacolo di Maddalena Crippa in Femmine fatali, ideato e diretto da Peter Stein, e apporta alle stagioni di prosa una serie di iniziative parallele tra cui: l'apertura di un'intensa attività di formazione con il Teatro Ragazzi diretto da Livia Clementi, alcuni progetti culturali che vanno dal teatro contemporaneo alla danza, dai recital ai concerti e l'apertura del sUeat, uno spazio dedicato alla ristorazione.
liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia "La matta di piazza Giudia” edito da Casa Editrice Giuntina
con Paola Minaccioni,
Regia di Giancarlo Nicoletti, drammaturgia Elisabetta Fiorito, con i musicisti Valerio Guaraldi e Claudio Giusti, musiche di Valerio Guaraldi, Scene Alessandro Chiti
Fra documento storico, emozione e ironia, Paola Minaccioni torna a teatro con
una grande prova d’attrice, vestendo i panni di un’antieroina del Novecento: Elena Di Porto, la “matta” del ghetto ebraico di Roma. Una storia vera tutta al femminile che si trasforma in uno spettacolo coinvolgente e di grande impatto emotivo.
Una storia di libertà, di femminismo ante litteram, di ribellione alle ingiustizie, un’eco di quanto accade ancora oggi nei regimi. È quella di Elena Di Porto, nata nel Ghetto di Roma, interpretata da Paola Minaccioni in “Elena, la matta”, in scena nei teatri italiani con la regia di Giancarlo Nicoletti, la drammaturgia di Elisabetta Fiorito, le musiche originali di Valerio Guaraldi, eseguite dallo stesso autore e Claudio Giusti. Lo spettacolo è un emozionante ì viaggio nell’Italia del Fascismo, delle leggi razziali, della paura, ma anche della speranza e della solidarietà. La storia vera di Elena Di Porto trae spunto dal libro “Elena, La Matta di Piazza Giudia” di Gaetano Petraglia, edito da La Giuntina, ma anche dalle memorie di Settimia Spizzichino, unica sopravvissuta al rastrellamento del Ghetto, dai racconti dello storico David Kertzer e dalle testimonianze di Giacomo De Benedetti.
Poverissima, stracciarola, dichiarata pazza dal regime, non lo era affatto. Nata nel 1912 da un’umile famiglia ebraica, Elena era una donna dal carattere singolare e ribelle, profondamente anticonformista. Separata dal marito, indipendente, antifascista convinta e temeraria, poco disposta ad accettare passivamente ogni forma di sopruso, soprattutto nei confronti degli altri Ma anche di una donna complessa che ha continue crisi di rabbia quando vede un’ingiustizia e che per questo viene rinchiusa a Santa Maria della Pietà. Elena passa attraverso la battaglia contro le angherie del regime, la persecuzione razziale, i reiterati ricoveri nell’Ospedale psichiatrico, gli scontri con le squadracce fasciste, il confino in Basilicata, il ritorno a Roma, il vano tentativo di resistenza durante l’occupazione nazista della Capitale fino al rastrellamento del 16 ottobre 1943. Il tutto in un crescendo di emozioni dove la protagonista racconta in un romanesco addolcito la sua vita e i suoi scatti d’ira che la mettevano nei guai quando non ce la faceva più di subire le angherie e per dirla con le parole sue “je partiva er chicchero”.
“Ho voluto raccontare questa storia per dar vita di nuovo a Elena perché la sento dentro di me come fosse una sorella. Una donna alla quale ispirarsi ogni giorno, una storia di libertà che spero commuova il pubblico come ha commosso me”, spiega Paola Minaccioni che interpreta Elena con tutta la veracità e la potenza per raccontare una femminilità decisa, forte, fuori dagli stilemi e provata dalle angherie del regime. Una matta non matta la cui storia rispecchia quanto sta accadendo attualmente nei paesi dominati dai regimi dove le donne che si ribellano vengono dichiarate ancora oggi “pazze”, simili a quelle che Elena incontrerà a Santa Maria della Pietà.
Dalle note di regia di Giancarlo Nicoletti: “Teatro di narrazione, monologo d’autore, rievocazione storica e grande performance attoriale: questi gli ingredienti per raccontare una storia che merita di non essere dimenticata. Tenendo presente che il teatro, quello buono, si gioca sempre ed essenzialmente su due cose: un grande testo e un grande interprete al servizio di una bella storia da raccontare. Ricordandosi della necessità, intesa come necessità – in un momento storico come quello attuale – di fare della memoria storica la bussola per le nostre scelte e la lente per capire la contemporaneità. Necessità, e urgenza, anche artistiche, perché Paola Minaccioni vuole essere Elena Di Porto e ha profondamente nelle vene tutta la veracità e la potenza per raccontare una femminilità decisa, forte, fuori dagli stilemi e provata dalle angherie del regime e del periodo storico.
Per nulla un monologo classico, quindi, ma uno spettacolo evocativo, e soprattutto emozionante. Con la volontà di raccontare un mondo, un’epoca, una figura di donna e, con esse, tutta una società.”
VOLEVO ESSERE MARLON BRANDO
TRATTO DALL’OMONIMA OPERA AUTOBIOGRAFICA SCRITTA DA ALESSANDRO HABER E MIRKO CAPOZZOLI, EDITO DA BALDINI&CASTOLDI
con FRANCESCO GODINA | BRUNELLA PLATANIA | GIOVANNI SCHIAVO
Comincia con una voce. Una voce che arriva da lontano… forse dal cielo, forse dalla coscienza. Una chiamata surreale e inaspettata che impone ad Alessandro Haber un conto alla rovescia: una settimana di tempo per fare ordine nella propria vita, nei propri ricordi, nei propri desideri – prima di un appuntamento inevitabile.
È da questo spunto ironico, poetico e profondamente umano che prende vita “Volevo essere Marlon Brando”: un racconto teatrale intenso e travolgente, a metà strada tra confessione e sogno, in cui Haber si mette a nudo, mescolando realtà e immaginazione, ricordi e visioni, ironia e malinconia.
In scena, in un grande “camerino” dell’attore zeppo di ricordi e oggetti della memoria una presenza femminile enigmatica e sorprendente, forse angelo, forse specchio, forse coscienza. E poi la musica: musicisti dal vivo e canzoni interpretate da Haber accompagnano e amplificano le emozioni, diventando parte integrante della narrazione.
È un viaggio dentro un’esistenza vissuta senza filtri né compromessi: l’infanzia tra Tel Aviv e Verona, gli amori tormentati, gli amici di sempre, le cadute e le rinascite, il mestiere dell’attore vissuto come missione e destino. Un flusso continuo in cui la risata si intreccia alla commozione, dove il dramma abbraccia la leggerezza, e ogni parola nasconde una verità condivisa con chi guarda e ascolta.
Lo spettacolo si sviluppa come un mosaico teatrale fluido e imprevedibile, dove i confini tra realtà e immaginazione si sfaldano in continuazione. Storie, visioni, ricordi e invenzioni si intrecciano in una narrazione che procede come un flusso di coscienza in scena: vivo, ironico, toccante e profondamente umano.
Tra apparizioni misteriose, dialoghi improvvisi e sogni a occhi aperti, ogni elemento si trasforma, si contamina, si reinventa. Un gioco di teatro-nel-teatro in cui tutto può accadere: il palcoscenico diventa uno spazio mentale, affettivo, emotivo, in cui lo spettatore è chiamato a entrare, riconoscersi, lasciarsi attraversare.
“Volevo essere Marlon Brando” è una celebrazione del teatro e della vita, uno spettacolo che sa far sorridere, pensare, commuovere.
Giancarlo Nicoletti firma una regia che esalta il carisma unico di Alessandro Haber, costruendogli attorno un racconto su misura: autentico, viscerale, a tratti spiazzante e senza filtri, ma sempre sincero. Un intreccio teatrale che non ha paura di osare, dove la parola si intreccia alla musica, la confessione al gioco scenico, la memoria al desiderio.
Il risultato è uno spettacolo libero e indomabile, proprio come il suo protagonista: un attore che si mette in gioco fino in fondo, senza schermi né protezioni, in un viaggio teatrale che è anche un atto d’amore per l’arte, per la vita e per il pubblico.
Il finale?
Non è una risposta. È un punto di domanda lasciato aperto, come un sipario che si rifiuta di chiudersi del tutto
UBI MAIOR
di Franco Bertini
con BARBARA BEGALA, MATTEO TARANTO, LEO GASSMANN, SABRINA KNAFLITZ
Tito ha vent’anni ed è molto più di un campione di scherma: è un giovane brillante, carismatico e determinato, che ha conquistato il gradino più alto del podio olimpico con sacrificio e dedizione. La sua vita è scandita da allenamenti, competizioni e continui spostamenti, tanto da non aver mai sentito davvero il bisogno di una casa tutta sua. Quando finalmente decide di farlo, resta comunque vicino alla famiglia. Un giorno, un messaggio inaspettato di suo padre lo richiama bruscamente a casa. C’è un problema. Un guaio serio, pericoloso: una leggerezza commessa da Lorena, sua madre, per cui ora si ritrova ad avere a che fare con un personaggio poco raccomandabile.
I suoi genitori, da sempre punti di riferimento, si rivelano sotto una luce inedita e lui stesso scopre un lato di sé che non aveva mai immaginato. Per proteggere la sua famiglia, Tito dovrà fare una scelta: restare fedele ai suoi principi morali o infrangere le sue stesse regole.
Ubi maior… minor cessat.
Uno spettacolo che affronta il tema della famiglia in modo originale e contemporaneo, alternando momenti di intensa emotività a spunti ironici, capace di divertire e, al tempo stesso, toccare corde profonde.
FINCHÉ GIUDICE NON CI SEPARI
con la partecipazione straordinaria di AUGUSTO FORNARI e con in o.a. ADRIANO FALIVENE | CARLA FERRARO | ROBERTO GIORDANO | ADELE VITALE
Mauro, Paolo, Roberto e Massimo sono quattro amici, tutti separati.
Massimo, libraio antiquario, è fresco di separazione e ha appena tentato il togliersi la vita. Il giudice gli ha levato tutto: la casa, la figlia e lo ha costretto a versare un cospicuo assegno mensile alla moglie. Con quello che resta del suo stipendio gli amici gli hanno trovato uno squallido appartamento, 35 mq. Massimo è disperato e i tre amici gli stanno vicino per rincuorarlo e controllare che non riprovi a mettere in atto l’insensato gesto. Ognuno da consigli su come affrontare la separazione, questa nuova situazione e come ritornare a vivere una vita normale.
Proprio quando i tre sembrano essere riusciti a riportare alla ragione il loro amico, un’avvenente vicina di casa suona alla porta. All’apparire dell’affascinante donna, gli amici hanno un guizzo. Ma la sorpresa sarà grande quando i 4 amici scopriranno chi è la donna misteriosa..
QUALCOSA E’ ANDATO STORTO!
scritto e diretto da CARLO BUCCIROSSO
con ELVIRA ZINGONE | PEPPE MIALE | FIORELLA ZULLO | STEFANIA ALUZZI | MATTEO TUGNOLI | FABRIZIO MIANO e con TILDE DE SPIRITO nel ruolo della nonna
Corrado Postiglione, modesto avvocato di provincia al servizio di una clientela sempre piuttosto popolare, ma non per questo sprovveduta ed accomodante, si dedica spesso con zelo alle frequenti vicissitudini dei propri familiari, mamma fratelli sorelle zii generi nipoti cugini ed affini, impelagati in controversie e liti di varia natura ed entità… per risolvere le quali e costretto a fare di necessità virtù, Postiglione fa grande sfoggio di una vasta gamma di sotterfugi pur di riacquistare la stima dei parenti ormai persa da tempi remoti, ed anche un minimo di introiti mensili per poter vivere in maggiore serenità… ma la buona sorte, che mai aveva fatto parte della vita del povero Corrado non l’assisterà neppure durante la delicata missione di tutore familiare… così che quando tutto sembra poter andare per il meglio, quando anche la più brutta delle rogne appare felicemente debellata, ecco che arriva l’imponderabile, come un fulmine a ciel sereno, qualcosa che neanche un principe del foro sarebbe stato in grado di prevedere ed aggirare… la malattia della mamma, la vera patrona della casa, di colei che da sempre aveva indirizzato e condizionato la vita dei figli, ma non quella della sua amata nipote, un’anima ribelle pronta a mettersi contro il mondo intero pur di difenderla agli occhi di tutti, persino a quelli dei suoi genitori, dello stimato e saccente cugino, e degli stessi zii mai uniti nelle loro esternazioni, e pertanto sempre più logorati da interessi contrastanti e repressi…il triste fardello del male spietato che entra in casa senza bussare, la casa dove Corrado era nato e cresciuto, ed un intero nucleo familiare che improvvisamente è alle prese con le incognite dell’eredità, legittima o testamentaria che sia, la più scontata delle controversie civili pronta a trasformarsi in combutta incivile, con una sola persona chiamata in causa a dirimere l’impossibile, l’imponderabile, l’indifendibile…zio Dodò, alias Corrado Postiglione, l’avvocato delle cause perse, solo contro tutti, al centro di tutto, ma disposto a tutto pur di risolvere il caso più difficile della sua carriera, con i clienti più rognosi che potessero capitargli e che mai l’avevano stimato… il caso disperato arrivato per caso che può cambiare una vita, forse la sua vita, e quella dei suoi clienti, i suoi “cari parenti”…ma chissà…qualcosa potrebbe non andare per il giusto verso …chi può dirlo?!… Forse solo io, ma di certo non ve lo dirò…
LE VOLPI
di Lucia Franchi, Luca Ricci
con GIORGIO COLANGELI | MANUELA MANDRACCHIA | FEDERICA OMBRATO
Le Volpi. Nell’ombra di una sala da pranzo, all’ora del caffè, in un’assolata domenica di agosto, si incontrano due piccoli notabili della politica locale e la figlia di una di loro. Tutto intorno i pensieri volano già al mare e alle vacanze, eppure restano da mettere in ordine alcune faccende che interessano i protagonisti della storia. Davanti a un vassoio di biscotti vegani, si confessano legittimi appetiti e interessi naturali, si stringono e si sciolgono accordi, si regola la maniera migliore di distribuire favori e concessioni, incarichi di servizio e supposti vantaggi. La provincia italiana è la vera protagonista della vicenda, quale microcosmo in cui osservare le dinamiche di potere, che hanno sempre a che fare con i desideri e le ossessioni degli individui. Morbidamente, si scivola dentro un meccanismo autoassolutorio per cui è legittimo riservarsi qualche esiguo tornaconto personale, dopo essersi tanto impegnati nella gestione della cosa pubblica. La corruzione è proprio questo concedere a se stessi lo spazio di una impercettibile eccezione. Come scrive Leonardo Sciascia nel suo romanzo “Todo modo”: “i grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi, e i piccoli fanno scomparire i piccoli fanatismi.
Il testo de LE VOLPI è giunto secondo al Premio UBU 2024, nella categoria “Miglior Testo Italiano / Scrittura Drammaturgica”.
BUBÙ BABÀ BEBÈ
regia di LAMBERTO LAMBERTINI
con PEPPE BARRA e con LALLA ESPOSITO
Arrangiamenti musicali Giorgio Mellone | Aiuto Regia Francesco Esposito
Francesco Manco - clarinetto | Agostino Oliviero - mandolino, violino | Antonio Ottaviano – pianoforte
Partiamo dal titolo: “Bubù Babà Bebé”, canzone, surreale filastrocca di Rodolfo De Angelis, cantautore, drammaturgo, attore, pittore e saggista napoletano degli anni trenta, un artista, un futurista, che aveva traversato la vita, come scrisse: “Con lieve e cauto passo ritmico”. Con questo spirito leggero possiamo dare inizio a questa passeggiata nei vicoli del nostro teatro novecentesco, epoca dalle mille facce, attraversandone luce e ombra, cupezza e allegria, commedia e tragedia, cavalcando tutte le sue molteplici forme, per coglierne l’anima, il gesto, lo stile, l’umore, l’amore profondo per la prosa e per la musica. Una vivace e incalzante miscellanea teatrale dove i due primi attori, aperto il sipario, si trovano circondati, ludici prigionieri, da pesanti pareti di velluto rosso fuoco, un pozzo, una caverna da cui è impossibile fuggire senza aver raggiunto la fine. Lungo quella plissettata, curva muraglia alcune sedie portano scialli, giacche, cappelli, spille e piume che possano servire agli attori. Si mette in moto un girotondo di testi che si susseguono senza respiro, uniti da legami di somiglianza e di contrasto. Si squaderna così un libretto di scenette, canzoni e monologhi, più rari o più famosi, da Di Giacomo, a Bovio, a Viviani, a Moscato, nel quale gli interpreti si trasformano nei relativi personaggi, aggiungendo, a vista, pochissimi elementi al loro nero costume di base. Un gran lavoro per Peppe Barra e Lalla Esposito, un gran divertimento al quale orchestrali e pubblico vengono continuamente indotti a partecipare. Uno spettacolo a due voci che sogna di essere un assolo.
IL MALATO IMMAGINARIO
di Molière
e con ANGELO DI GENIO | EMANUELE ARRIGAZZI | ALESSIA SPINELLI | NICOLA CIAFFONI | EMILIA TIBURZI | OTTAVIA SANFILIPPO
Dopo il successo degli allestimenti dedicati a classici come La locandiera di Goldoni e La bisbetica domata di Shakespeare – per cui Tindaro Granata è stato candidato al Premio Ubu –, l’attore siciliano e il regista Andrea Chiodi tornano a collaborare lavorando su uno dei testi più fortunati di Molière, Il malato immaginario.
Il 1673 è l’anno di composizione dell’opera: un nuovo attacco di Molière contro i medici, che testimonia, ancora una volta, il suo odio viscerale per questa categoria.
“Molière – scrive Giovanni Macchia, tra i francesisti più autorevoli del Novecento – è uno scienziato delle nevrosi”. È un uomo malato, che teme di morire, ma che sa anche che ridere e far ridere è una difesa contro quelli che erano i suoi stessi mali: la gelosia, il dolore, l’ansia, la malinconia. C’è, dunque, dietro commedie che sembrano fatte di comicità persino farsesca, l’ombra di un autoritratto, un gioco, dice Macchia, “tra assenza e presenza”.
“La mia esplorazione e curiosità per questo testo – dichiara Andrea Chiodi – inizia da questa battuta di Molière: ‘Quando la lasciamo fare, la natura si tira fuori da sola pian piano dal disordine in cui è finita. È la nostra inquietudine, è la nostra impazienza che rovina tutto, e gli uomini muoiono tutti quanti per via dei farmaci e non per via delle malattie’. Una visione che fa un po’ paura, ma che, allo stesso tempo, mi intriga moltissimo”.
E sarà un Malato immaginario onirico e irriverente quello firmato da Andrea Chiodi, divertente e contemporaneo nel portare in scena le vicende familiari dell’ipocondriaco Argante, circondato da medici inetti e furbi farmacisti, ben felici di alimentare le sue ansie per tornaconto personale.
Come l’avaro Arpagone, Argante è vittima di sé stesso e burattino di chi gli sta intorno, prigioniero della sua stessa paura, un’ossessione – l’ipocondria – che in questa nuova versione del capolavoro di Molière diventerà piena protagonista.
PIRANDELLO PULP
regia di GIOELE DIX
con MASSIMO DAPPORTO | FABIO TROIANO
Siamo in prova, sul palco dove deve andare in scena Il Giuoco delle Parti di Pirandello. Maurizio, il regista dello spettacolo, si aspettava un altro tecnico per il montaggio delle luci, ma si presenta Carmine, che non sa nulla dello spettacolo e soffre di vertigini. Maurizio è costretto a ripercorrere tutto il testo per farglielo capire e Carmine, pur di non salire sulla scala a piazzare le luci, si mette a discutere ogni dettaglio della regia. Le sue idee vengono da una sessualità vissuta pericolosamente, ma sono innovative, e Maurizio passa dall’irritazione all’entusiasmo, concependo infine l’idea di una regia pulp: un Giuoco delle parti ambientato in uno squallido parcheggio di periferia, dove si consumano scambi di coppie. I ruoli si invertono, e ora è Maurizio che sale e scende dalla scala per puntare le luci, mentre Carmine è diventato la mente pensante. Sembra un semplice gioco di ribaltamento dei ruoli, ma la scoperta di inquietanti verità scuoterà i precari equilibri trovati dai personaggi e farà precipitare la commedia verso un finale inaspettato. Il metateatro, specialità di Pirandello, viene interpretato da Edoardo Erba in chiave più attuale e irriverente. Eppure la lezione del maestro siciliano irrompe all’improvviso, quando il rapporto fra i due personaggi va oltre il limite del prevedibile. Divertente, intelligente e coinvolgente, questo Pirandello Pulp diretto da Gioele Dix si impone all’attenzione del pubblico come una delle più interessanti novità italiane della stagione.
DON GIOVANNI
da Molière, Da Ponte, Mozart
e con IRENE CIANI | ROSARIO GIGLIO | FRANCESCO PETRUZZELLI | GIULIA TRIPPETTA | GIACOMO VIGENTINI
adattamento e regia ARTURO CIRILLO
La mia passione per il personaggio di Don Giovanni, e per il suo inseparabile alter ego Sganarello (come Hamm e Clov di “Finale di Partita”, o come Don Chisciotte e Sancho Panza) nasce all’inizio soprattutto dalla frequentazione dell’opera di Mozart/Da Ponte.
Sicuramente i miei genitori mi portarono a vederla al San Carlo di Napoli, come sicuramente vidi il film che ne trasse Joseph Losey nel 1979. Ma l’incontro veramente decisivo con questo personaggio, e con l’opera mozartiana, avvenne intorno ai miei vent’anni, epoca in cui frequentavo l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Uno storico insegnante di Storia della Musica, Paolo Terni, ci fece lavorare proprio sul
“Don Giovanni” e in una forma che potrei definire di “recitar-cantando”, in cui ci chiese di interpretare il bellissimo libretto di Lorenzo Da Ponte (bellissimo per poesia, musicalità e vivacità, ma anche perché – e non lo dico solo io – è una delle opere più alte, dal punto di vista linguistico, della letteratura italiana). Oltre al libretto dapontiano recitavamo rapportandoci con la musica di Mozart, con i suoi ritmi e le sue melodie. E in quella occasione questa irrefrenabile corsa verso la morte (l’opera si apre con l’assassinio del Commendatore e si conclude con lo sprofondare di Don Giovanni nei fuochi infernali), questa danza disperata, ma vitalissima, sempre sull’orlo del precipizio, questa sfida al destino (o come direbbe Amleto: “al presentimento”) mi è apparsa in tutta la sua bellezza e forza. Negli anni successivi (come chi conosce un po’ il mio teatro sa) tra i miei autori prediletti si è imposto decisamente Molière, quindi mi è parso naturale lavorare su una drammaturgia che riguardasse sia il testo di Molière, appunto, che il libretto di Da Ponte. Anche il discorso musicale da tempo, o forse da sempre, mi coinvolge, e quindi ho deciso di raccontare questo mito, che è Don Giovanni, usando forme e codici diversi, conservando di Molière la sua capacità di lavorare su un comico paradossale e ossessivo, che a volte sfiora il teatro dell’assurdo, e di Da Ponte la poesia e la leggerezza, a volte anche una “drammatica leggerezza”. Poi c’è la musica di Mozart che di questa vicenda riesce a raccontare sia la grazia che la tragedia ineluttabile.
Perché in fondo questa è anche la storia di chi non vuole, o non può, fare a meno di giocare, recitare, sedurre; senza fine, ogni volta da capo, fino a morirne.
Arturo Cirillo